Misure contro la violenza in famiglia: ordini di protezione

La legge n. 154 del 2001, concernente le “misure contro la violenza nelle relazioni familiari” ha introdotto nel nostro ordinamento un importante strumento di tutela “a doppio binario” per fronteggiare il diffuso fenomeno della violenza domestica con l’introduzione di specifiche misure, sia in ambito civile che penale, a difesa delle vittime degli abusi familiari [1].
Obiettivo della legge è quello, pertanto, di fornire un ventaglio di mezzi cautelari di carattere personale e patrimoniale che consenta alle vittime di rompere il silenzio ed ottenere protezione senza doversi allontanare dalla casa familiare e rifugiarsi altrove (da parenti, amici…).
Il soggetto, pertanto, che subisce violenze (siano esse morali e/o fisiche) può chiedere all’Autorità Giudiziaria competente che vengano applicate nei confronti del soggetto violento (genitore, marito, moglie, convivente, figlio…) particolari misure cautelari in ambito penale e/o i c.d. ordini di protezione in ambito civile.

AMBITO CIVILE

La Legge in parola ha introdotto gli articoli 342 bis e 342 ter c.c., nonché l’art. 736 bis c.p.c., che disciplinano i presupposti ed i contenuti del c.d. ordini di protezione contro gli abusi familiari .
Tale misure possono essere richieste dal soggetto vittima di violenze, al Giudice competente, quando la condotta “del coniuge o di altro convivente [2]” è causa di grave pregiudizio alla sua integrità fisica e morale, ovvero alla sua libertà [3].
Il Giudice, se ne sussistono i presupposti, può ordinare, ai sensi dell’art. 342 ter c.c., al “soggetto violento” che ha tenuto la condotta pregiudizievole:

  • la cessazione delle violenze e il suo allontanamento dalla casa familiare (anche nel caso l’abitazione sia di sua, esclusiva, proprietà).

  • Di non avvicinarsi a determinati luoghi, abitualmente frequentati dall’istante (luogo di lavoro, luoghi di istruzione dei figli, domicilio della famiglia di origine e dei prossimi congiunti), salvo che questi non debba frequentare i medesimi luoghi per motivi di lavoro.
    In questo caso il Giudice prescrive le relative modalità e le, eventuali, limitazioni.

  • Il pagamento periodico di un assegno a favore della persone conviventi rimaste prive dei mezzi adeguati, fissando modalità e termini di tale versamento, prescrivendo, eventualmente, che la somma venga corrisposta direttamente dal datore di lavoro dell’obbligato, detraendola dalla retribuzione, ex art. 156 c.c..

  • In casi di forte tensione, l’intervento dei Servizi Sociali del territorio o di un centro di mediazione familiare, nonché il sostegno di associazioni a tutela di donne e minori (o altri soggetti) vittime di abusi e maltrattamenti.

L’ordine di protezione decorre dal giorno dell’avvenuta esecuzione, non può essere superiore ad un anno [4] e può essere prorogato, su istanza di parte, soltanto se ricorrano gravi motivi e per il tempo strettamente necessario.

L’elusione dell’ordine del Giudice civile è penalmente sanzionata ai sensi dell’art. 388 c.p..

ASPETTI PROCEDURALI

Ai sensi dell’art. 736 bis c.p.c., l’istanza di cui all’art. 342 bis c.c. si propone con ricorso al Tribunale del luogo di residenza o di domicilio del richiedente, il quale provvede in camera di consiglio in composizione monocratica. Il giudice designato, sentite le parti, procede agli atti di istruzione necessari e provvede con decreto motivato immediatamente esecutivo.
Nel caso di urgenza, il giudice, assunte, ove occorra, sommarie informazioni, può adottare immediatamente l’ordine di protezione fissando l’udienza di comparizione delle parti davanti a sé, entro un termine non superiore a 15 giorni ed assegnando all’istante un termine non superiore a 8 giorni per la notificazione del ricorso e del decreto.
All’udienza il Giudice conferma, modifica o revoca l’ordine di protezione e contro il provvedimento de quo è ammesso reclamo (che non sospende, però, l’esecutività dell’ordine di protezione) al Tribunale in composizione collegiale che provvede con decreto motivato non impugnabile.

NOTE

[1] Si tratta di provvedimenti che pur avendo una collocazione formale endo-processuale (destinati, cioè a svolgere un ruolo all’interno del processo) assolvono ad una prioritaria finalità eso-processuale: difendere i diritti fondamentali della persona nel caso in cui la realizzazione della condotta violenta travolga o pregiudichi lo svolgimento dei rapporti familiari. A. FIGONE, Violenza in famiglia e intervento del giudice, in Fam. Dir., 2001, 355.
[2] Uno dei tratti più significativi ed innovativi della Legge in parola è il riconoscimento di un fenomeno sociale sempre più diffuso, quale la famiglia di fatto e la conseguente tutela anche della persona “convivente” non unita dal vincolo del matrimonio.
[3] Nella nozione di violenza endo-familiare rientrano molteplici significati. Il maltrattamento in famiglia o l’abuso familiare si manifesta con condotte aventi modalità ed intensità sempre diverse che vanno a ledere molteplici aspetti della persona umana, non solo il corpo ma anche e soprattutto la mente, gli affetti, lo spirito. Di fronte ad una panoramica così vasta è stato necessario individuare la traccia comune di tutte queste condotte per giungere a qualificare il fenomeno in base alla finalità cui gli atti sono diretti: la sopraffazione del familiare debole attraverso strategie umilianti e dolorose, che comportano per chi le subisce penose condizioni di vita, che sono espressione di potere e di controllo volte a sottomettere la vittima (a titolo esemplificativo: mancanza di prestazione dell’assistenza morale e materiale, violenza verbale, abusi psicologici, minacce, ingiurie, ricatto economico, pregiudizio all’integrità psichica, divieto di realizzare le proprie scelte individuali, lesioni alla persona, forme di c.d. violenza assistita…).
F.M. ZANASI, Gli ordini di protezione contro gli abusi familiari, Milano, 2008.
[4] Le parole “sei mesi” sono state così sostituite dalle attuali “un anno” dall’art. 10 del D.L. 23 febbraio 2009, n. 11, convertito con modificazioni, nella L. 22 aprile 2009, n. 38.

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