Responsabilità del prestatore d’opera e danno risarcibile

 “Non è possibile liquidare un danno non patrimoniale al di fuori dei casi determinati dalla legge, non potendosi ravvisare nella condotta inadempiente né gli estremi di reato, né la lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, né il superamento del filtro della gravità della lesione e della serietà del danno, che a seguito di Cass., sez. U., sent. n° 26972 dell’11 novembre 2008, costituiscono altrettanti limiti di risarcibilità del danno non patrimoniale ex art.2059 cc, che “non possono essere ignorati dal giudice di pace” neppure “nella cause in cu decide secondo equità”.

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La sentenza in commento offre spunti di riflessione circa la responsabilità del prestatore d’opera nei casi di vizi dell’opera eseguita, con particolare riferimento alla distribuzione dell’onere probatorio tra le parti in lite nonché alla natura del danno risarcibile, il quale non potrà comprendere il danno non patrimoniale in assenza dei requisiti stabiliti dalla legge e consacrati con la sentenza Cass., sez. U., sent. n° 26972 dell’11 novembre 2008, di cui il Giudice di Appello offre un breve ma saliente riassunto.

Fatto

La sig.ra D.N. conveniva in giudizio dinanzi al Giudice di Pace di Modena la sig.ra F.R., titolare di una lavanderia, per ottenere la condanna al pagamento della somma di Euro 1.265,00, quale rimborso del prezzo di acquisto del proprio abito da sposa, irrimediabilmente rovinato dalla convenuta, a seguito di operazioni di pulizia affidatele dopo l’uso per la cerimonia nuziale, nonché dell’ulteriore somma di Euro 1.000,00, quale danno morale per la perdita del bene simbolo del giorno più importante della propria vita.
F.R., costituitasi in giudizio, chiedeva il rigetto delle avverse domande.
Il Giudice di Pace accoglieva la domanda dell’attrice in quanto ravvisava un inadempimento contrattuale della convenuta e determinava l’importo oggetto di condanna nella minor somma di Euro 997,00 di cui Euro 897,00 quale danno equitativamente determinato in ragione del 60% del prezzo d’acquisto dell’abito ed Euro 100,00 quale ristoro del pregiudizio al diritto di proprietà dell’attrice.
Avverso tale sentenza proponeva appello F.R. chiedendo il rigetto integrale della domanda di parte attrice; il Giudice accoglieva, in parte, l’appello proposto e, in riforma dell’impugnata sentenza, condannava F.R. al pagamento in favore di D.N. della minor somma di Euro 897,00.

Inquadramento giuridico

Si rileva che il contratto intercorso tra le parti si qualifica come contratto d’opera, la cui disciplina è prevista agli artt. 2222 e seguenti del Codice Civile (1).
Questo contratto, si caratterizza per l’assunzione del rischio di attività in capo al prestatore dell’opera che, ai sensi dell’art. 2226 c.c., è tenuto alla garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera; solo l’accettazione dell’opera libera il prestatore d’opera dalla responsabilità per le difformità o per i vizi della medesima (2)
Al contratto d’opera si applica, per espressa previsione normativa, la disciplina di cui all’art. 1668 c.c. (3) e, pertanto, in caso di difformità o vizi, il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese del prestatore d’opera oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa del prestatore d’opera (4).
Si rileva che la tutela apprestata al committente, ex art. 1668 c.c., si inquadra nell’ambito della responsabilità contrattuale per inadempimento, trovando pertanto applicazione la disciplina di cui all’art. 1218 c.c., secondo il quale “il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile”.

Imputazione della responsabilità ed onere probatorio

A riguardo, si riferisce un orientamento oramai consolidato della Suprema Corte in tema di prova dell’inadempimento, secondo cui “il creditore che agisca per la risoluzione del contratto, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte negoziale o legale del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa.
Anche nel caso in cui sia detto non l’inadempimento dell’obbligazione ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento, gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto esatto adempimento
” (5).
Pertanto, nell’illecito contrattuale, l’onere della prova è caratterizzato dalla presunzione di colpa nel caso d’inadempimento, superabile solo ove il debitore provi che l’inadempimento o il ritardo nell’adempimento non siano a lui riferibili per impossibilità della prestazione derivante da causa non imputabile.
All’attore, quindi, sarà chiesto di provare la fonte del suo diritto allegando l’inesattezza dell’adempimento da parte di controparte, mentre sarà onere del prestatore convenuto dimostrare l’esatto adempimento delle obbligazioni assunte, ovvero l’inimputabilità dell’inadempimento, avvenuto per fatto del terzo, forza maggiore o caso fortuito (6).
Nel caso de quo, tra le parti, si concludeva un contratto d’opera in forza del quale la sig.ra F.R., titolare di una lavanderia, si obbligava, a fronte del pagamento di un corrispettivo, ad effettuare la pulizia dell’abito da sposa della sig.ra D.N. la quale, in seguito alla restituzione, contestava un danno derivante dall’errato lavaggio di cui chiedeva il risarcimento, sia in termini patrimoniali – il rimborso della somma spese per l’acquisto dell’abito – che non patrimoniali – derivanti dalla perdita del bene simbolo del giorno più importante della vita.
Per quanto attiene alla domanda rivolta alla richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali subiti, il Giudice di primo grado prima, ed il Giudice di secondo grado poi, ravvisando un inadempimento contrattuale della convenuta, ritenevano fondata la domanda dell’attrice, condannando la titolare della lavanderia al risarcimento del danno, stimato nella misura del 60% del prezzo versato per l’acquisto dell’abito.
Ed infatti, il giudicante, come confermato in secondo grado, fonda la propria decisione in primis, sulla circostanza che, ex artt. 2226 c.c., il prestatore d’opera è tenuto alla garanzia per le difformità ed i vizi dell’opera.
A riguardo, si ribadisce che solo l’accettazione dell’opera libera il prestatore d’opera dalla responsabilità per le difformità o per i vizi della medesima e l’onere della prova in ordine all’accettazione dell’opera, senza riserve, grava sul prestatore che invochi l’esonero della garanzia ad essa conseguente (7).
Nel caso de quo, il Giudice ha correttamente ritenuto non adempiuto l’onere della prova incombente sul prestatore d’opera circa l’accettazione del bene senza riserve, in quanto dalle deposizioni testimoniali emergevano versioni contrastanti che, considerando tutti i testi di pari attendibilità, si elidevano a vicenda.
Inoltre, secondo il Giudice, “la relazione causale fra il lavaggio operato dalla convenuta ed il danno occorso all’abito risultava provato; essendo onere altrui dimostrare che nel tempo intercorso tra il lavaggio ed il rilievo del danno ad opera dell’attrice si era inserito un diverso evento causale in grado di interrompere tale nesso, circostanza che non è neppure stata allegata. Dimostrato il nesso causale fra la prestazione della convenuta ed il danno, la sua colpa è ex lege presunta, costei è chiamata al risarcimento”.

Natura del danno subito e quantificazione

Sulla quantificazione dei danni, il Giudice, in appello, riforma la sentenza emessa dal Giudice in primo grado.
Infatti, il Giudice di Pace condannava la convenuta a pagare la somma di Euro 997,00 di cui Euro 897,00 quale danno equitativamente determinato in ragione del 60% del prezzo d’acquisto dell’abito ed Euro 100,00 quale ristoro del pregiudizio al diritto di proprietà dell’attrice.
Il Giudice, in appello, mantiene la condanna della sig.ra F.R. al pagamento della somma di Euro 897,00 in ragione del pregiudizio patrimoniale equitativamente determinato, respingendo l’eccezione sollevata dall’appellante prestatrice d’opera, la quale contestava il mancato raggiungimento della prova sull’effettivo danno subito, determinabile esclusivamente con l’esperimento di una CTU, peraltro non richiesta da parte attrice.
Giustamente, il Giudice di secondo grado respingeva tale motivo di gravame sulla base del fatto che la determinazione del danno da parte del Giudice di prime cure fosse stata effettuata prudenzialmente sulla base del valore di presumibile residuo utilizzo del bene – per lo più di natura contemplativa ed evocativa – nonché in rapporto al suo valore di scambio.
Riteneva corretta la decisione del Giudice di primo grado di non ricorrere all’ausilio di una consulenza tecnica, la quale avrebbe avuto un costo superiore al beneficio, ricordando che il ricorso all’indagine tecnica sia un atto del Giudice, e non un mezzo di prova di cui la parte possa dirsi onerata ai sensi dell’art. 2696 c.c., così come sostenuto da parte appellante.
Ed invero, il Giudice è investito della facoltà di decidere, secondo il suo prudente apprezzamento e facendo riferimento alla propria conoscenza, all’esperienza o all’equità, l’ammontare di un risarcimento senza richiedere l’ausilio di un consulente tecnico.
La richiesta di intervento di tale figura, definita quale organo ausiliario del Giudice, non è obbligatoria né per le parti né per il Giudice, ma costituisce una mera opportunità nel caso in cui l’Organo Giudiziario sia chiamato a risolvere indagini di tipo specialistico di cui non abbia conoscenza.
Per quanto riguarda la richiesta di risarcimento del danno non patrimoniale, determinato dal Giudice di prime cure in Euro 100,00, il Giudice di appello riteneva invece fondato il gravame proposto, ritenendo che l’ulteriore somma liquidata non fosse dovuta in quanto “da considerarsi come danno non patrimoniale liquidato al di fuori dei casi determinati dalla legge, non potendosi ravvisare nella condotta inadempiente della convenuta appellante né gli estremi di reato né la lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione, né il superamento del filtro della lesione e della serietà del danno che a seguito della sentenza della Suprema Corte di Cassazione (SS.UU. 26972 del 11/11/2008), costituiscono altrettanti limiti di risarcibilità del danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c. che non possono essere ignorati dal Giudice di Pace neppure nelle cause in cui decide secondo equità”.
Ed invero, le Sezioni Unite della Cassazione, con la decisione del 11/11/2008 n. 26972, hanno composto i precedenti contrasti sulla risarcibilità del c.d. danno esistenziale e, più in generale, hanno riesaminato approfonditamente i presupposti ed il contenuto della nozione di “danno non patrimoniale” di cui all’art. 2059 c.c.
A riguardo, i Giudici della Suprema Corte con la sentenza citata, hanno ribadito che il danno non patrimoniale è risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, i quali si dividono in due gruppi: le ipotesi in cui la risarcibilità è prevista in modo espresso (ad esempio, nel caso in cui il fatto illecito integri gli estremi di un reato); e quella in cui la risarcibilità del danno in esame, pur non essendo espressamente prevista da una norma di legge ad hoc deve ammettersi sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. per avere il fatto illecito vulnerato in modo grave un diritto della persona direttamente tutelato dalla Costituzione.
La decisione è quindi passata ad esaminare il contenuto della nozione di danno non patrimoniale, stabilendo che quest’ultimo costituisce una categoria ampia ed omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile ritagliare ulteriori sottocategorie, se non con valenza meramente descrittiva; è, pertanto, scorretto e non conforme al dettato normativo pretendere di distinguere il c.d. “danno morale soggettivo”, inteso quale sofferenza psichica transeunte, dagli altri danni non patrimoniali: la sofferenza morale non è che uno dei molteplici aspetti di cui il giudice deve tenere conto nella liquidazione dell’unico ed unitario danno non
patrimoniale, e non un pregiudizio a sé stante.
Da questo principio è stato tratto il corollario che non è ammissibile nel nostro ordinamento la concepibilità d’un danno definito “esistenziale”, inteso quale la perdita del fare areddituale della persona. Una simile perdita, ove causata da un fatto illecito lesivo di un diritto della persona costituzionalmente garantito, costituisce né più né meno che un ordinario danno non patrimoniale, di per sé risarcibile ex art. 2059 c.c., e che non può essere liquidato separatamente sol perché diversamente denominato.
Quando, per contro, un pregiudizio del tipo definito in dottrina “esistenziale” sia causato da condotte che non siano lesive di specifici diritti della persona costituzionalmente garantiti, esso sarà irrisarcibile, giusta la limitazione di cui all’art. 2059 c.c..
Da ciò le SS.UU. hanno tratto spunto per negare la risarcibilità dei danni non patrimoniali cc.dd. “bagatellari”, ossia quelli futili od irrisori, ovvero causati da condotte prive del requisito della gravità, ed hanno al riguardo avvertito che la liquidazione, specie nei giudizi decisi dal giudice di pace secondo equità, di danni non patrimoniali non gravi o causati da offese non serie, è censurabile in sede di gravame per violazione di un principio informatore della materia (8).
Pertanto, il Giudice, ritenendo che la liquidazione del danno non patrimoniale sia avvenuta al di fuori dei limiti indicati ha correttamente riformato la pronuncia emessa sul punto dal Giudice di primo grado.


NOTE

  • 1. Il contratto d’opera, disciplinato dagli artt. 2222 e segg. c.c., è il contratto con cui una parte si obbliga verso un corrispettivo, a compiere un’opera o un servizio in favore di un’altra, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione.

  • 2. Ai sensi dell’art. 2226 “L’accettazione espressa o tacita dell’opera libera il prestatore d’opera dalla responsabilità per difformità o per vizi della medesima, se all’atto dell’accettazione questi erano noti al committente o facilmente riconoscibili, purché in questo caso non siano stati dolosamente occultati. Il committente deve, a pena di decadenza, denunziare le difformità e i vizi occulti al prestatore d’opera entro otto giorni dalla scoperta. L’azione si prescrive entro un anno dalla consegna. I diritti del committente nel caso di difformità o di vizi dell’opera sono regolati dall’articolo 1668”.

  • 3. Il criterio di distinzione tra il contratto d’opera (disciplinato dagli artt. 2222 e segg. c.c.) ed il contratto di appalto (artt. 1655 e segg. c.c.) è basata sul criterio della struttura e della dimensione dell’impresa cui le opere sono commissionate. Il contratto d’opera coinvolge la piccola impresa, e cioè quella che svolge la propria attività con la prevalenza del lavoro personale dell’imprenditore (e dei suoi familiari) e nella quale l’organizzazione non è tale da consentire il perseguimento delle iniziative d’impresa facendo a meno dell’attività esecutiva dell’imprenditore artigiano. In tal senso, vedi Cass. Civ. Cass. civ., sez. II 17-07-1999, n. 7606 e, dello stesso tenore, Cass. civ., sez. II 29-05-2001, n. 7307.

  • 4. L’art. 1668 c.c. dispone che “Il committente può chiedere che le difformità o i vizi siano eliminati a spese dell’appaltatore, oppure che il prezzo sia proporzionalmente diminuito, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore. Se però le difformità o i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, il committente può chiedere la risoluzione del contratto”.

  • 5. SS.UU. 30 Ottobre 2001, n. 13533.

  • 6. Circa la ripartizione dell’onere della prova in tema di responsabilità contrattuale, vedasi Cass. civ., sez. Unite 30-10-2001, n. 13533 – Pres. Vela A – Rel. Preden R – P.M. Iannelli D (conf.) – GALLO c. ASS. NON RICON. CENTRO CULTURALE LATINO AMERICANO “EL CHARANGO”, secondo cui “In tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell’onere della prova deve ritenersi applicabile al caso in cui il debitore convenuto per l’adempimento, la risoluzione o il risarcimento del danno si avvalga dell’eccezione di inadempimento ex art. 1460 (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l’altrui inadempimento, ed il creditore agente dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell’obbligazione). Anche nel caso in cui sia dedotto non l’inadempimento dell’obbligazione, ma il suo inesatto adempimento, al creditore istante sarà sufficiente la mera allegazione dell’inesattezza dell’adempimento (per violazione di doveri accessori, come quello di informazione, ovvero per mancata osservanza dell’obbligo di diligenza, o per difformità quantitative o qualitative dei beni), gravando ancora una volta sul debitore l’onere di dimostrare l’avvenuto, esatto adempimento. (Nell’affermare il principio di diritto che precede, le SS.UU. della Corte hanno ulteriormente precisato che esso trova un limite nell’ipotesi di inadempimento delle obbligazioni negative, nel qual caso la prova dell’inadempimento stesso è sempre a carico del creditore, anche nel caso in cui agisca per l’adempimento e non per la risoluzione o il risarcimento)”.

  • 7. Sul punto, vedasi Cass. civ., sez. II 19-02-2007, n. 3752 – Pres. ELEFANTE Antonio – Est. MALZONE Ennio – P.M. PATRONE Ignazio – T.G. c. ISTITUTO AUTONOMO CASE POPOLARI DI RAGUSA, ai sensi della quale “In materia di appalto, l’accettazione dell’opera non si identifica con la presa in consegna della medesima, con la conseguenza che incombe all’appaltatore l’onere di provare che il committente ha accettato l’opera, dopo essere stato invitato e messo in condizione di verificare la buona esecuzione della stessa. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, dalla cui adeguata motivazione emergeva che non vi era stata in concreto accettazione dell’opera da parte del committente, non avendo assolto l’appaltatore il relativo onere probatorio, risultando, peraltro, da apposita clausola del capitolato, che l’avvenuto collaudo e la conseguente consegna dell’opera non avrebbero esonerato l’appaltatore dalla relativa responsabilità)”.

  • 8. Sul solco della pronuncia della Cass. SS.UU. citata, si sono uniformate le successive pronunce in argomento: tra tante, vedasi Cass. civ., sez. III 30-04-2009, n. 10125; Cass. civ., sez. III 20-04-2009, n. 9338; Cass. civ., sez. Unite 16-02-2009, n. 3677.

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