Risarcimento del Danno Ingiusto o… consolidamento della ingiustizia?

Il Consiglio di Stato, Sezione V, con la sentenza n. 2143/2009, ha giudicato in materia di affidamento della realizzazione e fornitura della rete wireless per il collegamento dei comuni appartenenti al territorio di Comunità Montane esistenti nella Regione Marche.
La sentenza potrebbe apparire una consueta decisione in materia di legittimità delle procedure di affidamento e, infatti, riconoscendo viziata la composizione della commissione salutatrice (che era stata costituita in numero pari di componenti e senza la verifica di una “competenza specifica” in capo ad uno dei membri) ha confermato la decisione di primo grado del T.A.R. Marche (n. 958 del 30 maggio 2007) che ebbe ad accogliere il ricorso proposto da General Impianti s.r.l., risultata soccombente, e ha dichiarato illegittima la procedura di scelta del contraente.
Ma la particolarità della sentenza oggetto del presente commento sta nell’’ampia trattazione del problema del risarcimento del danno richiesto, per l’appunto, dalla ricorrente e negatole, pur essendo essa vittoriosa quanto all’impugnazione della procedura di gara e del suo esito.

Il risarcimento era stato negato anche dal T.A.R. Marche, in prime cure, e, a fronte dell’’appello principale della amministrazione (Comunità Montana dell’’Alto e Medio Metauro), la General Impianti s.r.l. ha proposto appello con riferimento al mancato accoglimento della pretesa risarcitoria, una volta che la sentenza del T.A.R. sia era risolta nella affermazione dell’’obbligo della P.A. di rifare la gara illegittimamente svoltasi.
La Sezione V del Consiglio di Stato ha, così, nella seconda parte della propria decisione, svolto una autentica “trattazione” dettando “regole che dovrebbero essere osservate in materia di risarcimento del danno ingiusto conseguente a lesione dell’’interesse legittimo”.

Fin dalla ben nota sentenza n. 500/1999 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e dalla successiva entrata in vigore della legge n. 205/2000 che “riportò” nell’’ordinamento quanto era stato disposto dal decreto legislativo n. 80 del 1998, si è aperto un dibattito coinvolgente giurisprudenza e dottrina, talvolta contrassegnato da punte di vivacità, in ordine all’’istituto, che allora era nuovissimo, del risarcimento del danno ingiusto da lesione degli interessi legittimi.
Ebbe ad affermarsi subito che l’’illegittimità del provvedimento amministrativo apportatore della lesione non è di per se stessa sufficiente a far sorgere l’’obbligo del risarcimento e che, per ottenere il diritto a quest’’ultimo, è necessario accertare anche una “colpa” della Amministrazione, considerata (come ebbero a sancire le SS.UU. della Cassazione), intesa non come colpa di un singolo funzionario, ma come colpa della “struttura”.
In senso opposto si era pronunciato lo stesso Consiglio di Stato, Sez. VI, ancora il 17 luglio 2008, con la sentenza n. 3602.

Mai, però, in questi anni è stata sviluppata una trattazione così estesa e così approfondita di quelli che si ritengono i criteri necessari per giungere all’’affermazione dell’’obbligo di risarcire il danno ingiusto.
Ovviamente si prescinde in questa sede dalla annoso e non ancora risolto problema della c.d. “pregiudiziale amministrativa”, cioè della eventuale autonomia della azione risarcitoria e della proponibilità di quest’’ultima anche senza il pregiudiziale annullamento del provvedimento che il danno ha cagionato. Nel caso concreto ciò non si è verificato.

Il Consiglio di Stato si sofferma sul risarcimento “per equivalente”, consistente, cioè, in una somma di denaro alternativa al risarcimento “in forma specifica” (che consiste nel ristabilimento della situazione che avrebbe dovuto verificarsi qualora la procedura di aggiudicazione, o le altre procedure di individuazione del privato titolare dell’’interesse tutelato fossero riconosciute legittime).
La particolare attenzione sul risarcimento per equivalente dimostra che il Consiglio di Stato finisce col privilegiarlo, sebbene sia il decreto legislativo n. 80/1998 sia la legge n. 205/2000, che le direttive della UE (in punto di effettività della tutela) e altresì numerose sentenze della Corte di Giustizia di Lussemburgo appaiano univoche nel proclamare che la prima e preferibile soluzione risarcitoria sia proprio quella “specifica”, cioè l’’attribuzione di quel “bene della vita” che già le Sezioni Unite avevano richiamato nel 1999.
Ciò giustifica una prima fondamentale riserva suscitata dalla decisione del Consiglio di Stato, ma si comprende dal momento che, nella legislazione italiana, si è privilegiato l’’“equivalente” rispetto alla “forma specifica”, a proposito degli affidamenti delle CC.DD. grandi opere infrastrutturali: articolo 246 del decreto legislativo n. 163/2006 e articolo 14 del decreto legislativo n. 190/2002.
Già questa impostazione suscita la prima perplessità sulla decisione del Consiglio di Stato, che peraltro presta il fianco a ben altre e più sostanziali obiezioni, tali da impedire di manifestare consenso e adesione ingenerando invece, il timore che la sentenza n. 2143/2009 segni l’inizio di un orientamento giurisprudenziale che sarebbe molto restrittivo.
Infatti, trattasi di una decisione estremamente severa e riduttiva, intenzionata a circoscrivere al massimo i casi di risarcibilità, senza nemmeno … nasconderlo, dal momento che si dichiarano necessari, da parte dei Giudici, “sforzi per trovare correttivi che rendano meno evidenti gli ingiustificati esborsi a carico della Finanza Pubblica”.
Sarebbe facile osservare che la tutela degli equilibri della finanza pubblica non spetta in alcun modo ai Giudici, ma al potere esecutivo e, semmai, alle scelte di un legislatore che al potere esecutivo piattamente obbedisce (le leggi sopra citate!) : meno … ponti sugli stretti e meno frettolose operazioni di finanziamenti di Alitalia avrebbero tutelato assai meglio le pubbliche finanze rispetto a ingiustificate strettoie in materia di risarcimento dei danni riconosciuti come “ingiusti”.
La Sezione V del Consiglio di Stato non nasconde, come si è detto, il proprio intendimento di ridurre al minimo i casi di risarcibilità e più volte ripete la parola “rigoroso” alla quali essa visibilmente si ispira.
Nella sentenza qui commentata il Consiglio di Stato elenca, innanzitutto (paragrafo 7.2), le “voci” che compongono il risarcimento del danno per equivalente: il costo di partecipazione alla gara, la perdita di chances, la perdita di immagine, la perdita dell’utile dell’impresa illegittimamente privata della commessa, i danni di gestione.
Per supportare il proprio orientamento il Consiglio di Stato passa, non senza una certa disinvoltura, alla definizione del danno ingiusto come effetto di “una responsabilità precontrattuale”, laddove, non senza problematicità critica, si era sempre parlato fin dalla ricordata sentenza n. 500/1999 delle Sezioni Unite, di responsabilità aquiliana ex art. 2043 del codice civile e se ne riparla nel corpo della sentenza stessa.
Il Consiglio di Stato afferma che per ottenere il risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo, a proposito del quale … sfugge agli estensori l’ammissione che trattatasi “di illecito extracontrattuale” (e non già “precontrattuale…”), il ricorrente deve sottoporsi all’onere di fornire “in modo rigoroso” le prove “fatti circostanziati”, allegando “circostanze di fatto precise”.
Viene meno, così, quell’orientamento di giustizia che, pur negando che l’illegittimità accertata del provvedimento lesivo comporti ipso iure un obbligo risarcitorio, riconosceva il valore di una “presunzione iuris tantum” di responsabilità risarcitoria, salva la possibilità per la Pubblica Amministrazione di dimostrare la “scusabilità” dell’errore che ha cagionato l’illegittimità del provvedimento.
E’ ovvio che, con tali orientamenti, diventa estremamente arduo asseverare il danno subito, dal momento che il costo di partecipazione alla gara, la perdita di chances e la perdita di immagine (necessaria sul piano della concorrenza, ma, soprattutto, in occasione di altre procedure di gara nelle quali occorra attestare il possesso di requisiti tecnici) sono oggettivamente innegabili e anche l’utile di impresa lo è, se è vero che – come giurisprudenza insegna – non è ammissibile formulare offerte nei procedimenti di evidenza pubblica, tali da evidenziare che l’offerente si propone di operare “in perdita” o “alla pari” senza voler conseguire alcun profitto (offerte “apparenti” o “fuorvianti”).
Il Consiglio di Stato affronta anche il problema della valutazione equitativa del danno, che rappresenta la soluzione estrema a disposizione del danneggiato, ed esclude siffatto criterio valutativo affermando addirittura che la possibilità di una valutazione equitativa sarebbe riservata ai danni “non patrimoniali”, non avvedendosi, nell’ambito di un convincimento macroscopicamente riduttivo e limitante, che quasi mai un provvedimento amministrativo può cagionare danni “non patrimoniali”, se non quando la fattispecie trascenda a veri e propri reati conoscibili dal Giudice Penale.
Pretendere la prova dello “ammontare preciso del pregiudizio subìto” con riferimento alla perdita di chance e alla perdita di immagine significa, in buona sostanza, negare la risarcibilità di tali specifici “danni ingiusti”.
Quanto alle spese sostenute per la partecipazione alla gara, si vuole una “specifica allegazione e prova delle singole voci”, laddove è del tutto evidente che offerte tecniche complesse ed articolate, progettazioni specifiche di dettaglio, risultati di ricerche e di individuazioni di specifiche soluzioni non si ottengono gratuitamente e ben possono essere oggetto di quantificazione equitativa, una volta che la partecipazione alla gara e la presentazione di offerte non consistenti in un semplice foglio recante la richiesta di corrispettivo (il prezzo), non sono negabili con la semplice consultazione degli atti di gara.
In calce al paragrafo 7.2.3.2 si legge la sorprendente affermazione che nell’utile di impresa (perduto!) è già ricompresa la remunerazione del capitale impiegato per la partecipazione alla gara, ma ciò, se ha un senso, lo ha per l’impresa aggiudicataria, laddove l’impresa illegittimamente soccombente quel capitale ha definitivamente e irrimediabilmente perduto senza alcun recupero.
Il timore di “ingiustificate locupletazioni” comporterebbe una scelta per i risarcimenti “in forma specifica”, perché, come è stato più volte rilevato e denunciato (anche da parte dell’autore di questa nota), la soluzione dello “equivalente”, oltre alla forte immoralità del principio “sbaglia pure, purchè dopo tu paghi”, determina sempre un costo sostanzialmente duplicato della commessa pubblica perché il corrispettivo allo aggiudicatario, ancorché illegittimamente tale, deve essere riconosciuto, mentre a colui che avrebbe dovuto legittimamente essere affidatario compete un risarcimento in danaro che non può essere evitato con argomentazioni insostenibili e inique.
Con l’ “equivalente” tutti i lavori pubblici, le forniture e i servizi costano doppio!
Altro che correttivi per evitare gli ingiustificati esborsi a carico della finanza pubblica!.
Più complesso, ma, se si vuole, ancor meno convincente è quanto il Consiglio di Stato afferma in materia di risarcimento dell’utile di impresa perduto.
La tradizionale commisurazione nel 10% dell’offerta presentata in gara (di certo non riferita al prezzo base d’asta, ma all’offerta contenente il ribasso praticato) ha rappresentato sin qui un criterio presuntivo estremamente attendibile, risalente, addirittura al … prudentissimo legislatore del 1800 in materia di appalti opere pubbliche. Si intende che, come assai spesso è avvenuto, quella percentuale può essere, dal Giudice Amministrativo, congruamente ridotta ed è da condividere la soluzione, non di rado adottata, di ridurre il c.d. “interesse positivo” in ragione del numero dei concorrenti in gara, così da considerare quali possano essere state, in astratto, le possibilità del ricorrente vittorioso di aggiudicarsi la commessa illegittimamente sottrattagli.
Di certo, allorché l’annullamento del provvedimento lesivo non comporta la identificazione concreta di chi avrebbe dovuto essere l’affidatario si esclude la sussistenza di un interesse legittimo “a risultato garantito”, ma il riconoscimento di un diritto risarcitorio può basarsi su di un risultato probabile.
A questo proposito colpisce la drastica esclusione del ricorso alla consulenza tecnica di ufficio, introdotta nel giudizio amministrativo dalla legge n. 205/2000. E’accaduto e dovrebbe accadere più spesso che, allo scopo di determinare quale sia in concreto il pregiudizio subìto, il Giudice Amministrativo disponga una sorta di “gara virtuale” per acquisire un parere tecnico circa le effettive probabilità che il concorrente illegittimamente pretermesso potesse acquisire in concreto l’affidamento ricavandone un utile.
La verità è che tutti i rischi di locupletazioni esorbitanti denunciati dal Consiglio di Stato si ridurrebbero drasticamente se si privilegiasse davvero il risarcimento del danno in forma specifica, il che né il legislatore né – a quanto sembra – il Consiglio di Stato intendono fare.
Ancora criticabile è la affermazione secondo la quale anche dopo il giudicato di annullamento della gara e della aggiudicazione, la Stazione Appaltante avrebbe “una somma di poteri tali da rendere poco credibile la garanzia della aggiudicazione all’originario ricorrente”. In realtà dopo la aggiudicazione definitiva non resta alla P.A. che la possibilità di esercitare la autotutela revocando addirittura gli atti di indizione della gara (le “valutazioni dell’amministrazione ulteriori alla aggiudicazione”), ma i provvedimenti di autotutela debbono essere adeguatamente ed estesamente motivati (lo predica lo stesso Consiglio di Stato) e debbono fondarsi su una equilibrata valutazione comparativa degli interessi in gioco, del tempo trascorso e degli affidamenti insorti, dopo di che – tuttavia – anche i provvedimenti di autotutela sono impugnabili ed anche in concomitanza con l’impugnazione di essi può essere richiesto il risarcimento di un danno ingiusto, ma di ciò la Quinta Sezione del Consiglio di Stato sembra non avere consapevolezza alcuna.
In conclusione la sentenza n. 2143/2009 del Consiglio di Stato non può essere, sul tema del risarcimento del danno, in alcun modo condivisa e l’auspicio di tutti coloro che hanno cuore la giustizia sostanziale nei rapporti fra P.A. e privati è, che essa non segni l’’inizio di un orientamento giurisprudenziale penalizzate in misura inaccettabile.
In ogni caso vi è sempre la possibilità che intervengano gli organi dell’Unione Europea, ovvero la Corte di Giustizia di Lussemburgo per rivendicare e far valere, anche nei confronti dell’Italia e dei suoi Giudici, la regola – recentemente ribadita con una Direttiva che deve essere recepita alla fine del corrente anno – della “effettività” della tutela giurisdizionale in nome del valore della concorrenza e della apertura dei mercati.
Il Consiglio di Stato non affronta il tema delle “scelte del danneggiato” (che potrebbe riaprire la “querelle” sulla pregiudiziale amministrativa, che qui non è il caso di affrontare), allorché qualcuno ha sostenuto che non impugnare il provvedimento lesivo o, addirittura (secondo taluni) non chiedere la “sospensiva” se lo si impugna integrerebbe la fattispecie di cui all’art. 1227 del Codice Civile (concorso del danneggiato nella produzione o nella entità del danno).
La tesi, del tutto inaccettabile perché non si può ammettere che il libero esercizio delle tutele giurisdizionali sia trasformato in un onere condizionante, è “liquidata” drasticamente da FULVIO CORTESE, in “Corte di Cassazione e Consiglio di Stato …”, su Diritto Processuale Amministrativo, 2/2009, pag. 550.

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Articolo pubblicato su “I contratti dello Stato e degli Enti Pubblici”, n.3/2009.

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