Chi agisce “cieco dalla rabbia” resta imputabile

Nonostante sia un modo di dire spesso utilizzato, “essere cieco dalla rabbia” è una frase che a livello giuridico non significa praticamente nulla. Un impeto di ira immotivata, infatti, non è in alcun modo una condizione tale da poter invocare la non imputabilità per giustificare l’azione lesiva commessa. 

A spiegare la piena responsabilità di chi agisce anche da “arrabbiato” è la Corte di Cassazione nella sentenza 15678/2023: vediamo insieme la vicenda processuale.

Folle di rabbia: la vicenda processuale

In primo e in secondo grado l’imputato viene condannato per il reato di danneggiamento su cosa esposta a pubblica fede venendo ritenuto dai giudici responsabile di aver danneggiato volutamente con violenti pugni le auto parcheggiate lungo la strada, in particolar modo quelle più nuove.

Ricorrendo in Cassazione, l’uomo chiede che gli venga riconosciuta la non imputabilità perché “è emerso dall’istruttoria che l’imputato non era persona autonoma ed era sottoposto ad amministrazione di sostegno; inoltre, la sua condotta è stata sintomatica di un grado limitato di capacità di attendere ai propri interessi”. Lo stato di ira e nervosismo dell’imputato, secondo i giudici, unitamente alle circostanze sopraelencate, non sono da ritenersi motivazioni idonee a incidere sull’imputabilità dello stesso.

Quando mancano le condizioni di imputabilità

Nella sentenza gli Ermellini chiariscono che, come già rilevato precedentemente, “per risalente giurisprudenza, il giudice di merito ha il dovere di dichiarare d’ufficio la mancanza di condizioni di imputabilità soltanto quando sia evidente la prova della totale infermità di mente, mentre l’eventuale vizio parziale di mente costituisce una semplice circostanza attenuante che deve essere allegata dall’imputato” (Cass. n.41095/2013). Nel caso specifico, nonostante sia stato riconosciuto lo stato d’ira dell’imputato, non sono stati acquisiti elementi tali “da indurre a ritenere inficiata la sua capacità di intendere e di volere, nonostante sia sottoposto all’amministratore di sostegno”.  E ancora, l’imputato non ha allegato valutazioni mediche relativamente alle sue condizioni psico-fisiche tali da poter giustificare una conclusione differente dall’impossibilità a riconoscere la non imputabilità.

La Corte ricorda che per i soggetti che abbiano già raggiunto la maggiore età la capacità di intendere e di volere è presunta: pertanto, per non riconoscerla, deve essere provato il contrario.

Inoltre, “è noto che lo stato d’ira non incide sull’imputabilità perché non integra un’infermità psichica ma uno stato emotivo e, come tale, “non esclude né diminuisce l’imputabilità”; né la sottoposizione dell’imputato all’amministratore di sostegno costituisce elemento sufficiente e idoneo a palesare la sua incapacità anche solo parziale di comprendere il disvalore delle proprie condotte e di contenere la propria aggressività”.

L’attenuante dell’ira

Al caso in esame non può trovare applicazione nemmeno la circostanza attenuante dello stato d’ira che avrebbe consentito all’imputato di beneficiare di una diminuzione di pena.

Ed infatti, l’articolo 62 del Codice penale, elencando le circostanze attenuanti comuni, vi fa rientrare anche “l’aver agito in stato di ira, determinato da un fatto ingiusto altrui”. Va specificato, però, che non è certo il caso in esame, in cui si pala di un’azione violenta assolutamente immotivata, scaturita da un disagio personale e sfociata nei danni alle auto parcheggiate per strada.

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