Bullismo: difendersi è reato?

Se un ragazzino reagisce a episodi di bullismo tirando un pugno al suo aggressore, può essere condannato? E qual è il ruolo di genitori e scuola?

Bullismo: se si reagisce, si è ritenuti responsabili?

La Cassazione ha recentemente stabilito che non può ricadere sulla vittima di bullismo che reagisce nei confronti dell’aggressore tutta la responsabilità dell’evento, sottolineando l’applicabilità dell’art. 1227 c.c. anche se il colpo in viso al coetaneo giunge in un momento diverso rispetto a quello in cui il giovane aveva subito le condotte vessatorie.

Secondo la Corte è doveroso essere sensibili verso gli adolescenti che, lasciati soli da scuola e istituzioni, siano esposti ad atti di bullismo idonei a provocare reazioni amplificate, seppur l’istinto di vendetta debba essere sempre condannato.

Senza una condanna pubblica di tali atteggiamenti, infatti, è legittimo aspettarsi una reazione emotiva e incontrollata da parte dell’adolescente bullizzato che, tra l’altro, ha una personalità non ancora formata in modo saldo. Senza dimenticare anche il peso dell’educazione impartita dai genitori, che deve essere formata soprattutto da comportamenti e non solo da parole.

Lo ha evidenziato la Corte di Cassazione, Sezione III Civile, nell’ordinanza n. 22541/2019, accogliendo il ricorso presentato da un ragazzo e dai suoi genitori.

Il caso di un ragazzo che ha preso a pugni un bullo che lo tormentava

Il giovane era stato per molto tempo vessato da un compagno finché un giorno aveva reagito sferrando un pugno in faccia al suo aggressore. A riguardo, il Tribunale dei Minorenni decideva di non condannarlo per tale comportamento, tuttavia, la Corte d’Appello riteneva che il giovane e i suoi genitori dovessero risarcire, in solido e per una importante somma, il bullo aggredito.

In particolare, poiché la reazione era arrivata in un secondo momento, successivo rispetto alle condotte persecutorie e offensive da parte del bullo, la Corte riteneva che il ragazzo non avesse agito per legittima difesa, bensì per aggredire fisicamente il proprio rivale. La condotta veniva così ritenuta causa autonoma del danno e non conseguente alla provocazione.

La Cassazione, invece, ha ritenuto applicabile l’art. 1227 c.c. sul presupposto che la condotta da cui era derivato l’evento fosse giunta in un momento diverso da quello in cui il ragazzo aveva subito l’aggressione.

Sul punto, la Cassazione evidenzia che quando l’autore della reazione è un adolescente, vittima di comportamenti prevaricatori, mortificanti e ripetuti nel tempo, è prevedibile una sua reazione che può assumere diversi connotati (addirittura forme autodistruttive): ad esempio, come avvenuto nel caso di specie, nell’assunzione di comportamenti esternalizzati aggressivi.

L’istinto di vendetta del minore bullizzato va certamente stigmatizzato, tuttavia, secondo gli Ermellini, l’ordinamento non può limitarsi a condannare “ignorando le situazioni di privazione e di svantaggio che ne costituivano il sostrato, non solo perché l’ignoranza e la sottovalutazione possono (persino) attivare un circolo negativo di vittimizzazione ulteriore, ma anche perché il bullismo non dà vita a un conflitto meramente individuale e richiede una serie di interventi coordinati che, oltre a contenere il fenomeno, fungano da barriera invalicabile che si interponga tra l’autore degli atti di bullismo e le persone offese, anche per rendere ingiustificabile la reazione di queste ultime”.

Il ragazzo bullizzato non ha subito condanne

In assenza di prove circa l’intervento delle istituzioni, in particolare della scuola, per arginare il fenomeno del bullismo e per sostenere il ragazzo, e mancando anche la prova della ricorrenza di espressioni di condanna pubblica e sociale del comportamento adottato dai bulli, non era possibile attendersi da parte della vittima, adolescente, una reazione razionale, controllata e non emotiva.

In ultimo, i genitori del ragazzo, invece, non vanno esenti dalla presunzione di responsabilità di cui all’art. 2048 c.c.. Nell’invocare continuamente l’esenzione da responsabilità del figlio, giustificandone il comportamento antigiuridico, hanno dimostrato essi stessi, in sostanza, di non aver percepito il disvalore della condotta del figlio e la gravità del fatto imputatogli.

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