Cassazione Sez. I, 14-05-2007, n. 10994/2007
Svolgimento del processo
La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza depositata il 21 settembre 2001 – in accoglimento dell’appello proposto da B. M. avverso la sentenza del Tribunale di Forlì che, pronunciando lo scioglimento degli effetti civili del matrimonio dallo stesso contratto con la Sig. V.D., e in riforma della sentenza stessa -, revocava l’assegnazione della casa familiare disposta in favore della V. dalla citata sentenza di primo grado.
La Corte rilevava che, secondo la giurisprudenza di legittimità, non è consentito al giudice imporre, invito debitore, l’adempimento in modo diretto – invece che mediante prestazione pecuniaria – dell’obbligo di mantenimento, in quanto l’art. 156 cod. civ., comma 1, stabilisce che si deve somministrare al coniuge, cui non sia addebitatile la separazione e che sia privo di adeguati redditi propri, quanto è necessario al suo mantenimento; che il potere del Giudice di assegnare la casa coniugale al coniuge affidatario di figli minori è in funzione degli interessi esclusivi della prole e non della necessità di mantenere il coniuge incolpevole, in quanto, diversamente opinando, il diritto d’uso dell’abitazione verrebbe a configurarsi come una specie di diritto reale di abitazione, in palese contrasto con la normativa; che le disposizioni dell’art. 156 cod. civ. e della L. n. 74 del 1987, art. 6 (recte: della L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6, come sostituito dalla L. 6 marzo 1987, n. 74, art. 11) hanno natura eccezionale, in quanto consentono l’attribuzione in godimento della casa familiare ad un soggetto che su di essa non vanti diritti, onde il Giudice non può disporre al di fuori dei casi tassativamente stabiliti.
La Corte d’appello rilevava quindi che l’appellata non aveva figli economicamente (e incolpevolmente) non autosufficienti, risultando la stessa convivere con un figlio che, pur in "condizioni di turbamento psichico", aveva un proprio reddito da lavoro ed era economicamente indipendente. Concludeva, quindi, affermando che la V. non poteva più conservare il godimento della casa e revocava conseguentemente l’assegnazione della casa familiare disposta dal Tribunale di Forlì in suo favore.
Per la cassazione di questa sentenza ricorre V.D. sulla base di un unico motivo; resiste, con controricorso, B.M..
Motivi della decisione
Con l’unico motivo, la ricorrente rileva che la sentenza impugnata ha aderito ad una interpretazione degli artt. 155 cod. civ., comma 4, e della L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6, come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 11, tutt’altro che pacifica in giurisprudenza e in dottrina.
La questione che la Corte d’Appello doveva esaminare era se sia legittimo o no disporre in sede giudiziaria un provvedimento di assegnazione della casa familiare al coniuge economicamente più debole qualora tale assegnazione trovi giustificazione in occasione della regolamentazione dei rapporti patrimoniali tra i coniugi medesimi, nel senso di configurare una componente in natura dell’obbligo di mantenimento dell’uno in favore dell’altro. E in proposito, la sentenza impugnata presenterebbe una motivazione lacunosa, in quanto, pur in presenza di orientamenti nella giurisprudenza di legittimità contrastanti, aderisce all’uno senza in alcun modo tenere conto delle diverse argomentazioni spese a sostegno dell’altro. La sentenza di primo grado, del resto, aveva assegnato ad essa ricorrente, convivente con un figlio maggiorenne ma non ancora autosufficiente, la casa coniugale di proprietà esclusiva del coniuge in parziale alternativa al suo diritto di percepire un assegno di mantenimento.
Dalla lettura corretta della L. n. 74 del 1987, art. 11, deriverebbe, inoltre, che l’assegnazione in uso della casa familiare non ha la funzione di esclusiva protezione degli interessi della prole, ma è diretta a garantire anche la posizione del coniuge più debole, avuto riguardo alle ragioni del divorzio. E una tale lettura sarebbe stata effettivamente offerta dalla giurisprudenza di questa Corte, segnatamente nella sentenza n. 4558 del 2000, nella quale si afferma che "l’assegnazione della casa familiare (…) in assenza di figli, può essere utilizzata come strumento per realizzare (in tutto o in parte) il diritto al mantenimento del coniuge".
Sotto altro profilo, la ricorrente deduce che la Corte d’Appello avrebbe dovuto procedere ad un diverso bilanciamento tra le ragioni del diritto di proprietà e quelle del principio personalistico che permea la Costituzione, pervenendo a privilegiare la propria posizione, in quanto coniuge più debole.
Da ultimo, la ricorrente contesta l’affermazione della Corte d’Appello, secondo cui, nel caso di specie, si sarebbe in presenza della convivenza del coniuge assegnatario con un figlio maggiorenne e autosufficiente, dal momento che la stessa Corte d’Appello ha dato atto dei problemi psichici del figlio e tuttavia non li ha valutati adeguatamente. In ogni caso, la ricorrente censura la sentenza impugnata perchè, in violazione dell’art. 2697 cod. civ., avrebbe dato per provata una circostanza, quella della indipendenza economica del figlio maggiorenne, senza che la parte appellante, onerata a fornire la relativa prova, avesse allegato e provato alcunchè, essendosi essa limitata ad affermare l’autosufficienza del figlio maggiorenne tramite generiche presunzioni, fondate sulla percezione di un reddito, ma senza alcuna prova in ordine alla sufficienza del detto reddito in considerazione delle condizioni patologiche delle quali pure si è dato atto.
Il primo e il secondo profilo dell’unico motivo di ricorso, al cui esame può procedersi congiuntamente per evidenti ragioni di connessione, sono infondati.
La ricorrente, nella sostanza, sollecita una rivisitazione del principio affermato da questa Corte a Sezioni Unite, in sede di composizione d contrasto, secondo cui "Anche nel vigore della L. 6 marzo 1987, n. 74, il cui art. 11 ha sostituito la L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6, la disposizione del sesto comma di quest’ultima norma, in tema di assegnazione della casa familiare, non attribuisce al giudice il potere di disporre l’assegnazione a favore del coniuge che non vanti alcun diritto – reale o personale – sull’immobile e che non sia affidatario della prole minorenne o convivente con figli maggiorenni non ancora provvisti, senza loro colpa, di sufficienti redditi propri" (Cass., S.U., 28 ottobre 1995, n. 11297). E ciò la ricorrente fa riproponendo, nella sostanza, le argomentazioni poste a fondamento del diverso orientamento disatteso con la citata sentenza.
In proposito, si deve tuttavia rilevare che il principio affermato dalle Sezioni Unite è stato recepito dalla giurisprudenza maggioritaria di questa Corte, la quale ha ribadito che, "in materia di separazione e di divorzio, l’assegnazione della casa familiare, malgrado abbia anche riflessi economici, particolarmente valorizzati dalla L. n. 898 del 1970, art. 6, comma 6 (come sostituito dalla L. n. 74 del 1987, art. 11), risulta finalizzata alla esclusiva tutela della prole e dell’interesse di questa a permanere nell’ambiente domestico in cui è cresciuta e non può essere disposta, come se fosse una componente degli assegni rispettivamente previsti dagli artt. 156 cod. civ. e L. n. 898 del 1970, art. 5, allo scopo di sopperire all’esigenze economiche del coniuge più debole, alle quali sono destinati unicamente gli assegni sopra indicati; pertanto, la concessione del beneficio in parola resta subordinata all’imprescindibile presupposto dell’affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni ad economicamente non autosufficienti" (così, Cass., n. 1545 del 2006).
Ancor più recentemente, si è rilevato come "la giurisprudenza di questa Corte (a partire dalla nota sentenza delle Sezioni Unite n. 11297 del 28 ottobre 1995, condivisa dalle successive e, tra queste, per citare le più recenti, da Cass., n. 661 del 2003; n. 13736 del 2003; n. 12309 del 2004; n. 22500 del 2004) possa ormai dirsi consolidata nel senso che, anche sotto il vigore della L. 6 marzo 1987, n. 74, il cui art. 11, ha sostituito la L. 1 dicembre 1970, n. 898, art. 6, la disposizione contenuta nel comma 6 della norma appena richiamata consente il sacrificio della posizione del coniuge titolare di diritti reali o personali sull’immobile adibito ad abitazione familiare, mediante assegnazione di siffatta abitazione in sede di divorzio all’altro coniuge, solo alla condizione dell’affidamento a quest’ultimo di figli minori o della convivenza con esso di figli maggiorenni ma non ancora provvisti, senza loro colpa, di sufficienti redditi propri, laddove, in assenza di tali condizioni, coerenti con la finalizzazione dell’istituto alla esclusiva tutela della prole e del relativo interesse alla permanenza nell’ambiente domestico in cui essa è cresciuta, l’assegnazione medesima non può essere disposta in funzione integrativa o sostitutiva dell’assegno divorzile, ovvero allo scopo di sopperire alle esigenze di sostentamento del coniuge ritenuto economicamente più debole, a garanzia delle quali è destinato unicamente l’assegno anzidetto, onde la concessione del beneficio in parola resta subordinata agli imprescindibili presupposti sopra indicati (Cass., n. 8221 del 2006).
A fronte di questo consolidato orientamento, che prende le mosse dal citato principio affermato dalle Sezioni Unite nella sentenza del 1995 sulla base di una complessa e articolata motivazione – principio che il Collegio condivide ed al quale intende dare continuità -, non pare che le argomentazioni sviluppate dalla ricorrente presentino elementi di novità, tali da indurre a diverse conclusioni. In particolare, deve qui rilevarsi come non possa attribuirsi efficacia di precedente contrario a Cass. n. 4558 del 2000, la quale ha affermato che "l’assegnazione della casa familiare s’inserisce in un duplice contesto: in presenza di figli spetta di preferenza e ove sia possibile (e quindi non necessariamente) al coniuge cui vengono affidati i figli medesimi (art. 155 c.c., comma 4); in assenza di figli, può essere utilizzata come strumento per realizzare (in tutto o in parte) il diritto al mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri nel quadro dell’art. 156 cod. civ., comma 1. Nella prima ipotesi, poichè si tratta di provvedimenti da adottare nel preminente interesse della prole, il Giudice del merito (cui compete tutelare tale interesse) può disporre al riguardo anche in mancanza di una specifica domanda di parte, previa acquisizione degli elementi fattuali necessari per decidere. Nel secondo caso, poichè si tratta di questione concernente il regolamento dei rapporti patrimoniali tra i coniugi, l’assegnazione della casa familiare presuppone un’apposita domanda del coniuge richiedente il mantenimento. Pertanto, contrariamente a quanto afferma il ricorrente, non sussiste un dovere (e neppure un potere) del giudice di identificare ed assegnare in ogni caso la casa familiare, indipendentemente dalle domande delle parti che attengono sempre a diritti indisponibili e inderogabili".
La Corte ha quindi osservato che, essendo pacifica l’assenza di figli, non risultava che il ricorrente avesse richiesto nei gradi di merito l’assegnazione della casa familiare; e la circostanza non era neanche dedotta nel ricorso per cassazione, non rinvenendosi, del resto, una domanda simile nelle conclusioni trascritte nell’epigrafe della sentenza impugnata.
In proposito, appare opportuno rilevare che, incontroverso il dato che l’assegnazione della casa coniugale costituisce un provvedimento che ha anche riflessi di carattere economico, nella pronuncia ora citata alla possibilità che la casa coniugale venga assegnata anche nel caso in cui il coniuge richiedente non sia affidatario di figli minori o convivente con figli maggiorenni incolpevolmente non autosufficienti, si è attribuito rilievo unicamente al fine divalutare se, accertato – contrariamente a quanto avvenuto nel presente giudizio – il diritto del coniuge richiedente al mantenimento, l’assegnazione potesse essere disposta a prescindere da una specifica domanda in tal senso. Nella sentenza n. 4558 del 2000, in altri termini, non vengono sviluppate argomentazioni tali da ritenere che la Corte, in quella occasione, abbia inteso discostarsi motivatamente dall’orientamento affermato dalle Sezioni Unite.
Nè può opporsi, conte preteso dalla ricorrente, che un simile orientamento finirebbe con il trascurare l’impianto personalistico della Costituzione italiana e, nel bilanciamento tra opposti interessi, con il favorire le ragioni della proprietà rispetto a quelle della tutela della persona. Invero, ai fini dell’assegnazione della casa coniugale assume rilievo la circostanza che l’ex coniuge al quale viene assegnata la casa sia affidatario dei figli minori o conviva con figli maggiorenni incolpevolmente non autosufficienti.
Tale previsione persegue indubbie ed evidenti finalità di protezione della prole e la posizione dell’ex coniuge affidatario non assume rilievo in sè, ma solo perchè il medesimo si trova in quel rapporto qualificato con i figli minori. Ma una volta che tale rapporto di convivenza non sussista, vuoi perchè dal matrimonio non siano nati figli vuoi perchè i figli siano diventati maggiorenni e siano autosufficienti, le diverse esigenze di protezione del coniuge più debole – e sempre che una simile situazione sia accertata dal Giudice del merito – possono trovare soddisfazione attraverso la corresponsione dell’assegno divorziale, dovendosi escludere che l’assegnazione della casa coniugale possa essere configurata come unico strumento di tutela del coniuge più debole. E la scelta circa la configurazione degli strumenti di tutela non può che essere rimessa al bilanciamento effettuato dal legislatore, il quale ha non irragionevolmente dettato norme in ordine all’assegnazione della casa coniugale solo per il caso in cui la casa coniugale debba essere destinata ad abitazione dei figli minori o dei figli maggiorenni incolpevolmente non autosufficienti.
Il primo e il secondo profilo dell’unico motivo di ricorso devono quindi essere rigettati, perchè la Corte d’Appello, escludendo il diritto del coniuge non affidatario di figli minorenni e non convivente con figli maggiorenni non autosufficienti (profilo, quest’ultimo, che forma oggetto degli altri motivi di ricorso) e non titolare del diritto all’assegno divorziale, all’assegnazione della casa coniugale, ha fatto corretta applicazione del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite nel 1995 e ribadito dalla successiva giurisprudenza di questa sezione.
In parte infondato e in parte inammissibile è il terzo profilo del motivo di ricorso, con il quale la ricorrente si duole sia dell’apprezzamento del giudice del merito in ordine alla situazione di autosufficienza del figlio maggiorenne con essa convivente, sia della violazione dell’art. 2697 cod. civ..
La Corte d’appello ha dato atto che, dalla documentazione acquisita, emergeva che la ricorrente conviveva con un figlio che, pur in "condizioni di turbamento psichico", aveva un proprio reddito da lavoro ed era economicamente indipendente. A fronte di un simile accertamento in fatto, la ricorrente oppone la erronea valutazione, da parte del Giudice del merito, delle condizioni di autosufficienza del figlio maggiorenne e la violazione delle norme sull’onere della prova. Sotto quest’ultimo profilo, la censura è infondata, perchè nel vigente sistema processuale vige il principio di acquisizione della prova, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si sono formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del Giudice (Cass., n. 5980 del 1998), senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro e, quindi, senza che possa escludersi l’utilizzazione di una prova fornita da una parte per trarre elementi favorevoli alla controparte (Cass., n. 5126 del 2000; n. 1112 del 2003). In tal senso, la censura di violazione del principio dell’onere della prova appare del tutto infondata, posto che la Corte d’Appello ha dato atto della esistenza di risultanze documentali attestanti l’autosufficienza del figlio maggiorenne e la stessi ricorrente da atto che nel giudizio di merito l’odierno resistente aveva dedotto, appunto, la sussistenza dell’accertata situazione di autosufficienza. Inammissibile è il profilo in esame nella parte in cui censura l’apprezzamento del giudice del merito circa la condizione di autosufficienza del figlio maggiorenne, trattandosi di accertamento in fatto, rispetto al quale la ricorrente contrappone la propria diversa opinione circa la possibile incidenza delle "condizioni di turbamento psichico" del figlio ai fini della valutazione di sufficienza o no del reddito dal medesimo incontestatamente percepito.
In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, nella misura di cui al dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 1.600,00, di cui Euro 1.500,00 per onorari, oltre spese generali e accessori come per legge. Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2007