Reddito di cittadinanza: cosa rischia chi lavora in nero

La Cassazione non lascia dubbi: lavorare, anche in modo irregolare, percependo il reddito di cittadinanza è un fatto grave che deve essere adeguatamente punito. Per questo motivo i giudici hanno confermato la condanna a oltre un anno di carcere per un imputato accusato di non aver comunicato il lavoro svolto né la sostanziosa modifica delle proprie finanze ad esso collegata. 

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Percepiva il reddito di cittadinanza ma lavorava in nero

Il caso approda in Cassazione su ricorso dell’imputato, che decide di impugnare la sentenza di secondo grado che lo condannava a oltre un anno di carcere per avere, in qualità di percettore di reddito di cittadinanza, omesso di comunicare l’avvenuta assunzione o, comunque, lo svolgimento di un’attività lavorativa presso una ditta individuale.

Nel ricorso, l’imputato lamenta un vizio nella motivazione dei giudici, sostenendo che l’attività lavorativa che aveva svolto fosse priva di retribuzione – come sostenuto anche dal datore di lavoro – non essendo, infatti, state accertate corresponsioni di salari. Il ricorrente dichiara di aver voluto svolgere questa attività durante gli arresti domiciliari, per poter rendere più leggera la detenzione a casa. Pertanto, si sostiene nel ricorso, “l’omessa comunicazione contestata non rientra nelle condotte punibili contemplate dalla norma incriminatrice” che non “avrebbe potuto comportare la revoca del beneficio, con la conseguente irrilevanza penale della comunicazione e della sua omissione”.

Per la Cassazione il ricorso è infondato

Per il Procuratore Generale, invece, il ricorso è da ritenersi inammissibile, perché l’imputato avrebbe dovuto comunque comunicare la variazione occupazionale, anche se il rapporto di lavoro non era regolarizzato, ritenendo “inverosimili le dichiarazioni dell’imputato e del datore di lavoro, secondo le quali la prestazione sarebbe stata svolta a titolo gratuito”.

Dello stesso avviso sono i giudici di legittimità, che reputano manifestatamente infondato il ricorso. Come correttamente motivato dalla Corte territoriale, la condanna è giunta secondo una logica coerente che deriva dalla mancata comunicazione da parte del ricorrente dello svolgimento dell’attività lavorativa retribuita, anche se irregolare. Durante il processo è stata già sottolineata l’inverosimiglianza della tesi, sostenuta dall’imputato e dal datore di lavoro, della gratuità della prestazione lavorativa, compensata al posto che con uno stipendio con regalie saltuarie. L’imputato, infatti, è accusato anche di omessa comunicazione di una variazione patrimoniale rilevante, avvenuta anche grazie al conseguimento di somme di denaro per donazione.

La Cassazione ricorda che l’attività lavorativa, anche quella irregolare, è considerata retribuita, oltre che con uno stipendio corrisposto, anche se pagata con regalie corrisposte in occasioni particolari (come nel caso concreto). I giudici hanno, infatti, riconosciuto che le donazioni e i regali sono stati ricevuti dall’imputato come compenso per l’attività lavorativa svolta, così come giustificato “in modo logico e concorde dai giudici di merito”.

Per questo il ricorso è dichiarato inammissibile a causa della sua genericità e per la manifesta infondatezza del motivo, e viene confermata la condanna alla detenzione in carcere.

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