Mobbing: la responsabilità del datore di lavoro

La giurisprudenza di legittimità si è ripetutamente pronunciata, anche nell’’ambito di controversie in materia di mobbing, sui limiti della responsabilità datoriale in presenza di uno stato di sofferenza psico-fisica del lavoratore, che sia da quest’’ultimo ricondotta ad una ipotizzata condotta vessatoria dei responsabili aziendali.

Per integrare la responsabilità civile del datore di lavoro, secondo l’’insegnamento della Suprema Corte, è necessario che sussista un nesso di causa ad effetto tra le iniziative inadempienti addebitate al soggetto agente e l’evento invalidante occorso al soggetto vittima, nel senso che al danno prodottosi nella sfera del dipendente deve aver contribuito, in via esclusiva o di antecedente concausale, una condotta datoriale in contrasto con le regole della correttezza o con i doveri del contratto di impiego.

Non ogni condotta inadempiente del datore di lavoro – idonea, di per sé, a ledere il diritto ad uno sviluppo corretto del rapporto di lavoro – consente di configurare a suo carico una responsabilità civile per i danni sopportati dal dipendente sul piano della salute ed esistenziale. Perchè si abbia una responsabilità civile per il risarcimento dei danni, a parere della giurisprudenza consolidata di legittimità, è necessario che le azioni vessatorie abbiano concorso, da sole o insieme a circostanze esterne, alla produzione dell’evento e ne rappresentino un antecedente causale.

La condotta datoriale, dolosa o colposa, omissiva o commissiva, è idonea a fondare la responsabilità per il risarcimento dei danni prodotti nella sfera del lavoratore, in questo senso, a condizione che abbia avuto efficienza causale, anche soltanto a livello di concausa, nella produzione dell’evento dannoso.

Al contrario, la responsabilità è da escludere laddove i danni lamentati dal dipendente siano da ricondurre ad eventi naturali o ad elementi estranei alla sfera di intervento dell’’imprenditore, i quali abbiano determinato in via esclusiva l’evento dannoso, senza che vi abbia contribuito la condotta, quand’anche inadempiente, del datore di lavoro.
In quest’ultima ipotesi, nella quale è da escludere una diretta responsabilità del datore per la produzione dei pregiudizi invalidanti nella sfera del lavoratore, potranno essere addebitati, tuttavia, i maggiori danni, ovvero gli aggravamenti che siano sopravvenuti per il dipendente sul piano dell’integrità psicofisica ed ai quali abbia contribuito, in via esclusiva o a livello concausale, la condotta vessatoria del datore di lavoro.

La responsabilità del datore di lavoro, esclusa sul piano principale per non essere stato riconosciuto un concorso nella causazione dell’evento dannoso, subentra a un secondo livello, per avere lo stesso datore di lavoro contribuito, per effetto del suo comportamento inadempiente, al peggioramento delle condizioni del dipendente.
Il caso si era posto, ad esempio, in presenza di un lavoratore che era stato adibito alle mansioni di cuoco presso una catena di ristorazione collettiva e lamentava una grave patologia depressiva. Il dipendente affermava, infatti, che lo stato invalidante era indotto da ripetute iniziative vessatorie del datore di lavoro, che si erano manifestate con un uso smodato e strumentale del procedimento disciplinare.

Il giudice di primo grado aveva accolto la domanda del dipendente, condannando il datore di lavoro ad un consistente indennizzo risarcitorio, mentre la Corte d’Appello, sul presupposto del concorso determinante di eventi esterni nella causazione della sindrome depressiva, aveva riformato la prima sentenza riducendo in misura considerevole l’entità del risarcimento.

La Corte di Cassazione (sentenza n. 13400 dell’8 luglio 2007) ha confermato le valutazioni espresse nel secondo grado di giudizio, affermando il principio per cui non sussiste responsabilità del datore di lavoro per quei danni che esulino dalla sua condotta e che si sarebbero verificati ugualmente anche senza di essa. Ma ha aggiunto, tuttavia, che devono essere addebitati al medesimo datore di lavoro i maggiori danni, in termini di aggravamento della patologia sofferta dal lavoratore, che siano sopravvenuti quale effetto della sua condotta e che non si sarebbero prodotti in sua assenza, con conseguente responsabilità per l’intero danno differenziale.

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