Vilipendio su Facebook allo Stato italiano? Si rischia il carcere

La Corte non lascia scampo: è reato di vilipendio su Facebook pubblicare sul proprio profilo una foto accompagnata da una frase offensiva ai danni dello Stato italiano. È questo che si apprende dalla sentenza n. 35988/19 pronunciata dalla Cassazione e che conferma la condanna a un anno e 4 mesi di reclusione per un militare macchiatosi di questo crimine.

Offese su Facebook allo Stato Italiano

Vilipendio su Facebook: il caso

Il Tribunale militare di Napoli ha ritenuto colpevole di vilipendio della Repubblica, aggravato ai sensi degli artt. 81 e 47, primo c. n.2, c.p. militare e lo ha condannato a un anno e 4 mesi di reclusione militare.

Il reato di Vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle Forze armate dello Stato, disciplinato dall’art. 81 c.p. militare prevede che: il militare, che pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo o la Corte costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la reclusione militare da due a sette anni. La stessa pena si applica al militare che pubblicamente vilipende le Forze armate dello Stato o una parte di esse, o quelle della liberazione.

Secondo i giudici territoriali l’imputato – un tenente di vascello polita della Marina Militare Italiana – pubblicando sul proprio profilo social la foto di una nave da guerra con la scritta “Fincantieri: collaborazione con l’India per sette fregate Stealth Imola Oggi”, ha commesso il reato di vilipendio aggiungendo – relativamente allo stato italiano – la frase “uno Stato di merda”.

La difesa del militare

Secondo la difesa dell’imputato in primis mancherebbe nel caso concreto l’elemento materiale e psicologico del reato e inoltre all’imputato sarebbe stato negato il proprio diritto di difesa, visto che non è stata effettuata alcuna verifica per accertare la paternità della frase incriminata.

La decisione della Corte di Cassazione

I giudici hanno ricordano che: Il reato di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel disprezzare, tenere a vile, ricusare qualsiasi valore etico, sociale o politico alle istituzioni predette, considerate nella loro entità astratta ovvero concreta, ossia nella loro essenza ideale oppure quali enti concretamente operanti.”

In risposta alla difesa dell’imputato, gli Ermellini hanno inoltre dichiarato che “L’elemento soggettivo del delitto di vilipendio della Repubblica, delle istituzioni costituzionali e delle forze armate consiste nel dolo generico (ossia nella rappresentazione mentale che il fatto potesse accadere), con conseguente irrilevanza dei motivi particolari che possano aver indotto l’autore a commettere consapevolmente il fatto vilipendioso addebitato”.

È stato chiarito, inoltre, che il diritto di esprimere liberamente il proprio pensiero (art. 21 Cost.) e, correlativamente, quello di associarsi liberamente in partiti politici (art. 49 Cost.) per manifestare determinate ideologie, al fine di concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale, trovano un limite non superabile nella esigenza di tutela del decoro e del prestigio delle istituzioni, per cui l’uso di espressioni di offesa, disprezzo, contumelia costituisce vilipendio punibile ex art 290 cod. pen. 

Il diritto di critica e libera manifestazione del pensiero supera il suo limite giuridico costituito dal rispetto del prestigio delle istituzioni repubblicane e decampa, quindi, nell’abuso del diritto, cioè nel fatto reato costituente il delitto di vilipendio, allorché la critica trascenda nel gratuito oltraggio, fine a se stesso.

In riferimento al requisito di pubblicità del messaggio, la giurisprudenza della Corte di legittimità è ormai costante nel ritenere che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cod. pen., poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone.”

Per questi motivi la Cassazione ha confermato la sentenza di condanna.

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