Offendere su Facebook: è diffamazione

La sentenza in commento costituisce occasione per soffermarsi su quale sia la normativa applicabile nel caso in cui un soggetto si senta diffamato per la comparsa in internet di scritti o espressioni lesive del proprio onore e della reputazione.

Occorre considerare come oggi le nuove tecnologie stiano soppiantando gli strumenti tradizionali di diffusione e come le stesse siano state concepite proprio per creare spunti di socializzazione tra gli utenti e per consentirne la loro libera manifestazione del pensiero.

In realtà ciò non significa che in internet tutto è concesso.

Infatti, in ciascun ordinamento pur mancando delle norme specifiche dedicate al digitale ed al fine di porre rimedio a tale vuoto normativo, interviene la giurisprudenza cercando di rendere applicabili delle norme tradizionali (nate prima dell’era digitale) al “nuovo mondo”.

E così con lo strumento della rete è possibile realizzare il reato di diffamazione aggravata (art. 595 c.p.) quando vengono indirizzate a soggetti identificati o facilmente identificabili espressioni che ledono l’altrui onore e reputazione; il reato di minaccia (art. 612 c.p.) quando si minaccia ad altri un ingiusto danno; il reato di truffa (art. 640 c.p.) quando con artifici e raggiri, inducendo taluno in errore, si procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno; il reato di estorsione (art. 629 c.p.) quando con violenza o minaccia costringendo taluno a fare o ad omettere qualcosa, si procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno; il reato di sostituzione di persona (art. 494 c.p.) quando al fine di procurare a sé o agli altri un danno, induce taluno in errore, sostituendo illegittimamente la propria all’altrui persona o attribuendo a sé o ad altri un falso nome o un falso stato ovvero una qualità a cui la legge attribuisce effetti giuridici (reato che si intende realizzato con la condotta della creazione di falsi profili facebook) ecc.

Il problema che si pone agli interpreti è quello di verificare – alla luce delle analogie presenti tra la stampa tradizionale e quella digitale – se sia possibile applicare alla rete disposizioni specifiche dettate per la stampa.

Gli oppositori alla tendenza di parificare internet alla stampa non mancano di far notare come, in alcuni casi, siano proprio le differenze tra i due sistemi a sollevare perplessità circa la correttezza di una tale equiparazione.

È il caso per esempio della responsabilità ex art. 57 c.p. che colpisce il  direttore responsabile che omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati (tra cui quello della diffamazione).

La Cassazione Penale con sentenza 16-07-2010 n. 35511 finisce per escludere l’applicabilità dell’art. 57 c.p. al direttore di una testata giornalistica on line motivando detta decisione proprio sulle riscontrate differenze tra un quotidiano on line ed una pubblicazione tradizionale cartacea.

Si tratta in primo luogo della non riconducibilità della telematica al genere della stampa periodica (richiamando quale limite nel nomen della fattispecie di cui all’art. 57 c.p. – reati commessi col mezzo della stampa) per mancanza della riproduzione dei mezzi tipografici, meccanici o fisico-chimici, sia di una vera e propria pubblicazione nel senso di diffusione delle singole copie.

A presentare differenze tra loro ed a giustificare in questo caso la mancata applicazione della norma sulla stampa al direttore di testate on line rileva inoltre, sempre secondo la sentenza citata, l’attività peculiare di quest’ultimo che a differenza del suo “collega cartaceo” si trova nell’impossibilità, senza sua colpa, di controllare tutto ciò che venga pubblicato sulla “sua” testata.

Si pensi al tipico dinamismo della testata on line in cui le notizie vengono aggiornate di continuo ed ove il lettore può persino interagire con essa, postando commenti alle notizie, senza alcun filtro preventivo.

A proseguire in detta direzione è la recente sentenza pronunciata dalla Cassazione Penale, Sez. I, sentenza       08-06-2015 n. 24431 secondo cui postare commenti diffamatori mediante il social network Facebook, integra il delitto di diffamazione aggravata di cui all’art. 595 comma 3 c.p. per “essere l’offesa con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” quindi idonea a raggiungere un numero indeterminato o quantitativamente apprezzabile di soggetti.

con detta sentenza, infatti, la Suprema Corte interviene per risolvere un conflitto negativo di competenza tra il Giudice di Pace di Roma che dichiarava la sua incompetenza a decidere in ordine al reato di cui all’art. 595 c.p. comma 3 (diffamazione a mezzo della stampa o con altri mezzi di pubblicità) ed il Tribunale di Roma che al contrario riteneva non configurabile l’aggravante viceversa considerata dal Giudice di Pace.

Il caso in esame riguardava la condotta di un soggetto che aveva postato sulla bacheca facebook della persona offesa un commento denigratorio.

La Cassazione, dopo aver ritenuto sussistente il conflitto, in quanto i due giudici ordinari contemporaneamente ricusavano di giudicare in ordine alla medesima vicenda giurisdizionale, rinveniva la competenza a conoscere del fatto dedotto in giudizio in capo al Tribunale di Roma.

In sostanza, postare un commento denigratorio sulla bacheca della persona offesa costituisce un’ipotesi di diffamazione “con altro mezzo di pubblicità”, punito e previsto dal comma 3 dell’art. 595 c.p. e di competenza del Tribunale monocratico.

Per giungere a siffatte conclusioni la Corte argomenta che la condotta in esame si realizza avvalendosi di un mezzo idoneo e capace di raggiungere una pluralità di persone, quindi con una capacità di diffusione certamente più incisiva rispetto alla fattispecie prevista dal primo comma, relativa alla comunicazione tra presenti.

 

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